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NEWS

25/07/2018

Time In Jazz XXXI

Diamo i numeri…
Dopo 30 anni diamo i numeri del festival internazionale Time in Jazz.
Numeri infiniti ed esponenziali. Naturali e razionali, algebrici, reali e a volte complessi.
Numeri musicali teorizzati a suo tempo da Pitagora e successivamente da Archita, Didimo, Tolomeo, Zarlino, Galileo, Rameau…nel tentativo di dare alla musica una connotazione matematica che sia  relazionata con la fisica acustica e con le frequenze sonore che generano note, armonici e intervalli, consonanze e dissonanze.

Lungi da noi l’idea di entrare in merito alle Nous pouvons vous proposer à vous tous d'excellentes de grande qualité. complesse teorie sul suono (anche se in parte lo abbiamo fatto parlando del cromatismo bachiano e del temperamento equabile in occasione del festival dedicato agli “Occhi”) né tanto meno di organizzare un festival dedicato ai numeri.
Ciò che vogliamo fare per i prossimi 3 anni (3 è numero dispari, numero primo di Mersenne, Sophie Germain e Fermat, numero della successione di Fibonacci nonché numero malvagio per alcuni…) è giocare sui numeri romani XXXI, XXXII, XXXIII perché ci appassiona ed è stimolo per nuove connessioni artistiche e creative.
Del resto “se abbiamo fatto 30 possiamo fare 31” (come disse Papa Leone X quando, dovendo eleggere un massimo di 30 cardinali, si rese conto di avere dimenticato un suo amico vescovo) e, dopo l’edizione del 2020, proveremo a “dire 33” per comprendere se lo stato di salute di Time in Jazz è buono.
Perché lo sia continueremo ad impegnarci come abbiamo fatto in questi primi 30 anni.
Con passione e dedizione.
Mettendoci all’ascolto di quelle che sono le novità della musica contemporanea in campo internazionale ma senza dimenticare il jazz italiano che, sempre di più, è presente in seno al programma del nostro festival.
Sappiamo che possiamo permettercelo grazie a un pubblico che ripaga i nostri sforzi e il nostro coraggio.
Se la semina è stata buona il raccolto sarà ricco e si potrà misurare con strumenti multipli come si usava fare in Sardegna con s’imbudu che frazionava il Mou, misura adottata dal Regno di Sardegna nella metà dell’800.
E se artisti come Albert Ayler, Cecil Taylor, Ornette Coleman e Anthony Braxton si sono cimentati con i numeri a noi piace essere confortati dall’antico detto latino “Numero Deus impare gaudet”(*).
Certi che anche a Dio piaceranno i numeri dispari nonché le relative corrispondenze.



(*) - Dio ama i numeri dispari [Virgilio, Egloghe – VIII, 75]

Damus sos numeros…
Posca de 30 annos damus sos numeros de su festival internazionale Time in Jazz.
Numeros infinidos et esponentziales.repliky hodinek praha
Naturales et ratzionales, algebricos, reales et a bortas cumplessos.
Numeros musicales teoridzados a tempus sou dae Pitagora et posca dae Archita, Didimo, Tolomeo, Zarlino, Galileo, Rameau…cun s’idea de dare a sa musica una connotatzione matematica chi siat  relatzionada cun sa fisica acustica et cun sas frequentzias sonoras chi dzenerant notas, armonicos et intervallos, cunsonantzias et dissonantzias.
Not nos cherimus attrivire a s’idea de intrare in s’argumentu de sas cumplessas teorias subra su sonu (puru si in parte l’amus fattu faeddhendhe de su cromatismu bachianu e de su temperamentu equabile in s’occasione de su festival dedicadu a su tema de sos “Ojos”) né tantu mancu de organidzare unu festival dedicadu a sos numeros.
Su chi cherimus faghere  pro sos 3 annos chi ant a bennere (3 est numeru dispari, numeru primmu de Mersenne, Sophie Germain et Fermat, numeru de sa sudzessione de Fibonacci et puru numeru ruinu pro tzertos…) est giogare subra sos numeros romanos XXXI, XXXII, XXXIII ca nos piaghet et est unu pundonore pro cunnessiones noas,  artisticas et creativas.
De su restu “si amus fattu 30 podimus faghere 31” (comente neit su Paba Leone X candho, dovendhe eledzere unu massimu de 30 cardinales, si rendheit contu de s’aere immentigadu unu amigu sou chi fit piscamu) et, posca de s’editzione de su 2020, amus a proare a “narrere 33” pro cumprendhere si s’istadu ‘e sa salude de Time in Jazz est bonu.
Pro chi lu siat amus a sighire a nos impignare comente amus fattu in custos primmos 30 annos.
Cun animu e diditzione.
Ponendhenos in ascultu de cussas chi sunt sas novidades de sa musica cuntemporanea in campu internatzionale ma chena immentigare su jazz italianu chi, sempre pius, est presente in sinu a su programma de su festival nostru.
Ischimus chi nollu  podimus pirmittere gratzias a unu pubbricu chi ripagat sos isforzos ei s’alentu nostru.
Si sa semina est istada ‘ona su regoltu ad’a essere bundhante et s’ad’a podere medire cun istrumentos multiplos comente si usaiat faghere in Sardigna cun s’imbudu chi frazionaiat su Mou, misura adottata dae su Regnu de Sardigna in sa meidade de s’800.
Et si artistas coment’a Albert Ayler, Cecil Taylor, Ornette Coleman et Anthony Braxton si sunt indelettados cun sos numeros a nois piaghet essere cunfortados dae s’antigoriu dicciu latinu “Numero Deus impare gaudet”(*).
Tzertos chi puru a Deu an’a piaghere sos numeros disparis ei sas relativas currispondentzias.
Paolo Fresu

(*) – A Deu piaghent sos numeros disparis [Virgilio, Egloghe – VIII, 75]

25/07/2017

TRENTA!

A Filomena

Trenta! Time in Jazz è un numero tondo, sferico.
Numero che sa di trance e di follia. Di pecore munte al suono de sas cadinas e di digitale. Di passato e di presente. Sa di padelle appese a mo' di scena sul palco e di motocarrozzelle metalliche assurte al ruolo di oggetti d'arte moderna. 
Time in Jazz sa di gente. Di fuochi e di bande, di fanfare e combo, di soli vertiginosi e di orchestre. Sa di poeti improvvisatori e di rime in limba. Di percussioni, di percussionisti e di bicchieri che risuonano e brillano sollecitati dalla luce del sole appena nato. Sa di amici che non ci sono più e di nuovi arrivi. Sa di incontri e di scontri. Di fidanzamenti e di dispididas. Di bimbi, di giochi e di grandi. Di cibo e di vino. Di dolci. E sa di mandorle amare e di vigne che profumano di vermentino.
Sa di musica, Time in Jazz. Quella dei campanacci delle greggi che a volte accompagnano il suono di chi è appena arrivato da New York o da Berlino, e sa di voci ataviche tra una basilica, una cantina e una strada. Ma sa soprattutto di vento. Di quel maestrale che è il vero protagonista e che porta quanto ha raccolto a nord-ovest del mondo, rubando un po' di suono e rendendolo ad altri.
Era il lontano 1988 quando siamo nati e questi trent'anni non sono stati facili. Siamo andati avanti spediti e sempre più convinti della necessità di fare e di programmare il diverso, l'inascoltato e il non ancora visto o percepito.
In un tempo remoto iniziarono a girare i gruppi da strada contribuendo a fare del festival una festa collettiva capace di coinvolgere sempre di più le comunità allora scettiche e oggi totalmente complici di un progetto che si sviluppa nei luoghi che diventano teatri improbabili.
In primis quelli del culto che coniugano il Jazz con il mistico. Una delle foto che amo di più è stata scattata dall'amica Nina Contini Melis e ritrae il musulmano Dhafer Youssef con il suo oud davanti alla statua di Sant'Antioco di Bisarcio. Infrangendo le barriere musicali e quelle religiose, Time in Jazz è diventato un buon esempio di integrazione e di comunicazione fra le genti, le fedi e le razze, invitando musicisti africani, turchi, macedoni, maghrebini, lapponi, newyorkesi, scandinavi, mitteleuropei, sardi, bretoni, giapponesi, vietnamiti… italiani…
Quell'apertura descritta nell'ormai storico manifesto artistico e filosofico del festival scritto nel lontano 1988 su un foglio A4 da una Olivetti Lettera 32 è stato perseguito con rigore.
È il manifesto delle musiche e non della musica. Un festival di jazz, dunque, ma soprattutto un festival che crede nella propensione del linguaggio afro-americano, musica dinamica e in divenire per sua stessa natura, all'apertura verso il mondo con i suoi intrecci geografici e stilistici facendosi portare dai venti del Maestrale, dell'Austro, dello Scirocco… Venti dei quali noi siamo la vela spiegata del loro aquilone.
A Berchidda succede che non ci sia un solo paese in festa ai piedi del Limbara ma che questa festa sia contagiosa e coinvolga Comuni vicini e lontani, tra il Logudoro, la Gallura, l'Anglona, la Romangia, la Baronia e il Meilogu.
Succede a Berchidda che, nonostante in trent'anni siano passate centinaia di migliaia di persone, queste abbiano sempre convissuto e il variegato pubblico che vi arriva, in cravatta, col piercing e con il cane, viva il festival non solo come una festa ma come un momento di riflessione e di comunione vera, dove i suoni della musica diventano il companatico del rito da consumare in Piazza del Popolo o nelle chiese di campagna, tra le sughere o in un bosco di lecci, in un ippodromo o in un'altra piazza, in un aeroporto, una stazione o una nave in traversata.
E può succedere che anche la musica si faccia una, come le genti divengono una, e che questa racconti il variegato mondo che la respira. Nel campeggio Tancaré o nel Bar Jolly di Giammartino bevendo vermentino dopo avere premiato il poeta Mario Masala per i suoi sessant'anni di carriera o al laghetto Nunzia, nel Demanio forestale, dove si esibisce un tale con la fisarmonica che si dimena alle nove del mattino perché sa che a Berchidda succedono cose che non accadono altrove, neanche alla Scala di Milano o alla Carnegie Hall di New York.
 Non accade che ci si perda a Time in Jazz. E se questo accade, in viaggio verso l'Agnata o per un cartello spostato o male interpretato, il viaggio diviene ancora più ricco e la scoperta dei luoghi prelude a quella dell'arte che vi dimora per necessità prima che per piacere.
Accade che l'emozione e la poesia s'insinuino nei filari di una vigna alle sei del pomeriggio e che zappe e altri strumenti che lavorano la terra dialoghino con una tromba che suona verso un cielo rosso straziante quando i campanacci delle greggi diventano violini e contrabbassi e i suoni degli utensili della campagna sono oboi e pianoforti.
Ma Berchidda non è una. Perché durante il festival succede anche che Rio Zocculu e Sa Rughe siano i quartieri di una metropoli infinita. Le dodici note musicali ne delineano i nuovi confini, che sono immaginari ma che ne colgono la ricchezza degli incontri, smussando gli angoli di una nuova geografia incerta.
Succede che uno spazio come una vecchia casa abbandonata diventi museo e che un caseificio in disuso sia un nuovo teatro o una officina produttiva che trasforma non più latte ma idee.
La transumanza di chi si sposta tra basiliche e parchi eolici rappresenta una metropolitana di superficie dove le stazioni sono decine e decine di concerti, esposizioni di arte contemporanea, incontri, proiezioni; e accade che tutti siano ricettivi e aperti verso le problematiche di oggi e che i suoni dell'Africa, del Sud America, dell'Europa, dell'America nera e dell'Asia diventino un presente da portarsi a casa e da consumare nel freddo inverno in attesa di un'altra estate.

A Time in Jazz può succedere che qualcuno dica «che non deve più succedere». Che qualcuno rifletta sul fatto che il mondo può essere migliore se il senso del bello vi alberga e sullo stesso palco dialogano mondi opposti, nella geografica come nella religione, nel colore della pelle come nella normale interpretazione delle cose.
Che qualcuno rifletta non solo sul rapporto tra uomo-musica-territorio-natura ma sull'impatto che un festival come il nostro può avere sull'ambiente che ci ospita, rendendoci tutti più responsabili e coscienti dell'importante compito che una manifestazione come la nostra deve avere. Compito e missione che non deve essere solo il proporre buona musica, ma utilizzare i suoni per una riflessione collettiva intorno ai temi ambientali e a quelli energetici.
Succede che ci si ritrovi tutti a consumare il rito collettivo del concerto immersi nella natura o ospiti in una basilica persa nel nulla, obbligandoci non solo a dialogare correttamente con gli spazi ma a viverli coralmente, dividendoli e condividendoli con gli altri.
Se il rispetto per il pianeta passa attraverso il rispetto verso noi stessi e verso gli altri, in questo senso sento di poter affermare che la musica e l'arte hanno un valore fondamentale in quanto linguaggi comunicativi che attraversano l'uomo e il mondo, tessendo fili che, come in un'opera di Maria Lai, annodano la parte più profonda e recondita di noi stessi e ribaltando così il tradizionale concetto del vedere e del sentire.
A Berchidda si vede con il cuore e si sente con gli occhi, perché nei mille luoghi incontaminati che ci accolgono i sensi si amplificano grazie ai colori e ai profumi che a loro volta donano magia e poesia alla musica.
E può succedere che assieme ai i volontari di Time in Jazz, che hanno sei, undici o settanta anni, cenino, allo stesso tavolo, nella mensa di Elia Saba, Jan Garbarek, Ornette Coleman, Ahmad Jamal e Bill Frisell, che prendono il loro vassoio e, a fine pasto, vanno via contenti di suonare per il loro vicino di posto e per nessun altro.
Accade a Berchidda, Oschiri, Ittireddu, Sassari, Osilo, Olbia, Sorso, Cheremule, Ozieri, Telti, Tempio, Mores, Pattada,

Codrongianos, Tula, Budoni, Bortigiadas, Posada, San Pantaleo, Calangianus, Monti, Ardara, San Pasquale, Luras, Sant'Antonio di Gallura, Nughedu San Niccolò, Siligo, Loiri, Porto San Paolo, Alà dei Sardi, Uri, Buddusò, San Teodoro…
In tutti questi posti può succedere che siano i luoghi a diventare protagonisti e che la musica vi lieviti, sconvolgendo l'assetto tradizionale dell'intendere e del sentire, perché il tempo a Time in Jazz è dettato dal susseguirsi degli accadimenti e non dai giorni, che sembrano non bastare mai.
A Berchidda succede che risulti normale non farsi bastare le cose e che il verde di una vite debba essere sempre più verde. Perché sarebbe anormale che non fosse così, se venisse a mancare quell'idea di architettura collettiva che ha dato al festival radici forti e un basamento solido.
Questo è stato Time in Jazz e questo è oggi. Nel bene e nel male è una vela spiegata in balia dei venti e di questi ne è una delle tante voci.
Perché Time in Jazz ha tracciato strade nuove e dimostrato quanto la cultura possa essere uno straordinario veicolo di scoperta e di scambio, di ricchezza materiale e immateriale, al punto da essere oggi di tutti e soprattutto di quelli che vorranno farlo loro con curiosità e passione.
È in questo che, a mio avviso, si cela il senso di questo anniversario che deve essere una festa e che deve proiettarsi verso il futuro. Con il coraggio, la passione e la lungimiranza che lo ha contraddistinto nei suoi primi trent'anni di vita.

Paolo Fresu

28/09/2016

Il Jazz Italiano raccoglie i primi 90.000 euro per Amatrice.

 

IL JAZZITALIANO  RACCOGLIE I PRIMI 90.000 EURO PER AMATRICE.

Tutto il jazz italiano è fiero di poter dare un aiuto alle popolazioni colpite dal sisma e di contribuire alla costruzione di un luogo di cultura che preservi la memoria e tenda la mano al futuro e alle nuove generazioni

La grande giornata di solidarietà musicale “Il Jazz Italiano per Amatrice e gli altri comuni colpiti dal sisma”, con la presenza di oltre 600 tra i più rappresentativi musicisti italiani intervenuti a titolo gratuito, si è tenuta il 4 settembre in circa 25 città italiane oltre a Roma e l’Aquila.
Seguita da oltre 70.000 persone, con un grande copertura mediatica durante tutto il giorno delle reti Radio e Tv della Rai e successivamente con uno speciale di Rai Cultura, era indirizzata al raccogliere fondi destinati al restauro e alla riapertura del Cinema Teatro Comunale “Giuseppe Garibaldi” di Amatrice, luogo simbolo della cultura e della ricostruzione del tessuto sociale di uno dei centri storici distrutti dal sisma.
In attesa della lunga e onerosa ricostruzione sarà proposto alla comunità di Amatrice di investirli in un luogo attrezzato che sostituisca il Teatro Cinema Garibaldi crollato nella notte del sisma e che sia luogo polifunzionale per tutte le attività della comunità e dei centri limitrofi. Continueremo la raccolta fondi coinvolgendo altre realtà del mondo jazzistico e non solo, con la volontà di collaborare sinergicamente con tutto il mondo della cultura italiana e durante l’edizione del prossimo anno della maratona aquilana, che si intitolerà “Il Jazz Italiano per L’Aquila e Amatrice”, proseguiremo nella raccolta delle donazioni spontanee e porteremo anche un concerto ad Amatrice.

Il mondo del jazz italiano (Midj, I-Jazz, Casa del Jazz e tutte le realtà che hanno contribuito alla raccolta dei fondi) si impegna, quindi, a seguire direttamente il progetto della costruzione del teatro collaborando anche alla programmazione di alcuni eventi.
Il 3 settembre il jazz italiano ha inoltre donato un pianoforte al Conservatorio dell’Aquila frutto di una operazione di crowdfunding messa in atto con www.eppela.com, la stessa piattaforma dove stanno affluendo altre donazioni spontanee per Amatrice e per gli altri centri colpiti dal sisma del 24 agosto.
Il bellissimo libro fotografico “Il Jazz Italiano per l’Aquila” racconta la grande maratona dello scorso anno.
Prodotto dalla Midj (Associazione Musicisti Italiani di Jazz) e edito dalla Postcart Edizioni di Claudio Corrivetti è stato presentato in occasione della giornata del 04 settembre.
I ricavi, tolte le spese di produzione, andranno alla ricostruzione del teatro.
Grazie a tutti per ciò che è stato fatto e per ciò che si farà!
Paolo

30/07/2015

Time In Jazz 2015 - ALI

"Il teologo islamico Bandar al-Khaibari sostiene che la Terra non gira su se stessa.
Perché altrimenti, così spiega in un video affidato alla rete, volendo volare in direzione opposta al suo moto, basterebbe staccarsi dal suolo e aspettare che la destinazione ci venga incontro.
È il giornalista Piergiorgio Odifreddi a riportare la notizia sul domenicale di Repubblica del 22 febbraio 2015 e a citare Galileo e i suoi “Dialoghi sopra i due massimi sistemi del mondo” per smontare il pensiero di al-Khaibari. 
L’astronomo e matematico pisano scriveva nel 1632 che l’atmosfera si muove solidalmente alla Terra perché ne mantiene la velocità per il principio dell’inerzia, e dunque Copernico potrà dormire ancora sonni tranquilli.
Sono su un aereo che da Monaco di Baviera mi riporta a Bologna e so che anch’io posso dormire senza incubi: sbarcherò al Marconi in orario senza attendere che la Terra faccia strani scherzi o che, proprio oggi, decida pigramente di non muoversi.
Tutto normale, dunque, se non fosse che l’articolo in questione è davanti ai miei occhi proprio mentre mi accingo a scrivere le note per il tabloid dell’edizione numero ventotto del festival internazionale Time in Jazz, quest’anno dedicato al tema delle “Ali”. 
Note che vorrei incentrare non tanto sulla poesia dell’aria e della sospensione ma sui concetti di rotondità del pianeta e ciclicità delle cose che riportano ad altri scritti concepiti per le passate edizioni.

Già nel lontano 1990, infatti, la sfera empedoclea divenne elemento suggeritore per una manifestazione musicale che muoveva i suoi primi passi provando a ruotare intorno ai temi dell’arte e dei sentimenti. Approdando, nel 1993, a un festival dove uomini creativi come Gaudí, Satie e Matisse ci portavano per mano verso il presente di ora passando tra “Gli otto continenti” dell’edizione del 1994. Se per Empedocle tutto va visto attraverso una visione ciclica del mondo e degli accadimenti non potevamo non approdare, dopo tanto navigare nei molteplici temi di questi anni, nei “piedi” e nelle “ali” laddove l’Icaro di Henry Matisse, raffigurato in una delle venti lastre che compongono il libro “Jazz”, diviene protagonista e musa ispiratrice.
C’è un parallelismo e una empatia tra l’edizione numero ventisette e quella numero ventotto di questo anno come c’è un altro parallelismo tra l’artista francese e un’altra grande figura del Novecento, Frida Kahlo.
L’opera di Matisse fu realizzata tra il 1944 e il 1947 quando il pittore ultrasettantenne e ormai paralizzato su una carrozzina, scoprì grazie al jazz il volo dei sentimenti mentre l’artista messicana, costretta a letto per via di una grave malattia e successivamente per un terribile incidente, scriveva nel suo diario “Pies, para qué los quiero si tengo alas para volar”. 
È con questa metafora che lo scorso anno ci siamo lasciati pronti a volare verso un nuovo festival che si annuncia luminoso come il sole e volatile come una meteora.
Festival composto da una infinità di piccoli tasselli che creano una galassia multiforme e multicolore disegnata da artisti, progetti, linguaggi, genti, luoghi, dialoghi, riflessioni, scambi e voci plurali.
Se oggi Time in Jazz ha il suono di un boato che si espande nei continenti così da farli diventare otto o più è nell’idea mistica del pensiero presocratico di Empedocle che si nasconde la filosofia del cammino perenne di una realtà artistica, la nostra, che attraversa trent’anni di storia.
Poiché, come teorizza il filosofo di Agrigento, nulla nasce e nulla muore ma è l’Essere a permanere.
Se questo è stato scritto nel V secolo a. C. a noi l’arduo compito di cercare nuove connessioni nella storia degli uomini e del mondo.
Il jazz è sfera, cerchio e traiettoria del nostro percorso ed è grazie a questo idioma se proveremo, anche stavolta, a librarci verso l’ignoto.
Buon volo.
Paolo Fresu"

15/02/2015

Tǔk Music e mercato digitale...

Come anticipato alcuni mesi fa, la Tǔk Music fa il suo ingresso sul mercato online in maniera indipendente.

Dal 18 Febbraio i nostri dischi saranno disponibili in tutto il mondo sulle più importanti piattaforme di musica digitale: da iTunes a Deezer, passando per Spotify e Bandcamp.

Abbiamo voluto inaugurare questo nuovo corso con le ultime uscite dell'etichetta ma anche con un contenuto speciale.

Iniziamo da "Kairòs", il disco del pianista e trombettista siciliano Dino Rubino. più interessanti a nome dei nuovi talenti del jazz europeo: recensioni positive e ascoltatori sedotti da un lavoro in ottetto che spazia tra i generi prendendo per mano l'ascoltatore e avvolgendolo di emozioni. 

E' chiaro che non poteva nemmeno mancare il progetto di ottoni che prende il nome di Brass Bang! e vede assieme Paolo, Gianluca Petrella, Steven Bernstein e Marcus Rojas. Da Jimi Hendrix a Pierluigi Da Palestrina, dai Rolling Stones alla canzone italiana...e a luglioun lungo tour di presentazione porterà in giro questo stralunato quanto affascinante progetto.

Chiudiamo con una sorpresa, che molti di voi ci hanno chiesto di poter acquistare oppure di ascoltare al di fuori del luogo in cui è rimasta finora...
Si tratta della colonna sonora di "Torneranno I Prati", l'ultimo lungometraggio del regista Ermanno Olmi, e dedicato alla Grande Guerra.
Paolo, Daniele di Bonaventura, Roberto Dani e Luca Devito compongono il quartetto che ha registrato la colonna sonora, composta di due brani: "Del Soldato In Trincea", e "Torneranno I Prati -suite". 
Buona musica a tutti.

19/01/2015

Aggiornamento del 20 Gennaio sulla vicenda Libero-Bechis

Alla luce dei dati comunicati dall'ufficio  della Struttura di Missione per gli Anniversari di Interesse Nazionale, che confermano quanto già pubblicato su questo profilo nella massima trasparenza, questo pomeriggio il nostro avvocato ha notificato al Direttore di Libero  e al Vice Direttore di Libero una seconda diffida, della quale postiamo i dettagli più importanti.
[…] facendo seguito all’atto di diffida notificato in data 15.01.2015, si evidenzia con rammarico che ad oggi il Quotidiano Libero  non ha proceduto né alle scuse formali né alla rettifica di quanto erroneamente pubblicato nell’articolo intitolato: "Renzi paga 20 mila euro al minuto la tromba di Fresu".
Si ribadisce pertanto la richiesta già formulata a Libero di pubblicare in via immediata:
1.Formale atto di scuse pubbliche al mio assistito per nike air max 1 quanto erroneamente indicato.
2. Rettifica di quanto erroneamente pubblicato con la chiara indicazione dei dati veri come comunicati dal Governo che attraverso l’ufficio stampa della struttura di Missione per gli anniversari di interesse nazionale 

Tutti i dati relativi alla questione e ripresi dalla stampa a completezza della questione erroneamente riportata da Libero.
Il Formale atto di scuse, così come la rettifica, devono essere pubblicati con gli stessi mezzi utilizzati per la pubblicazione dell’articolo e del video pertanto deve essere pubblicato sul giornale di Libero, sul sito web del medesimo, sul profilo Facebook di Libero e sul profilo Facebook di Franco Bechis e su ogni eventuale altro sito e/o profilo Facebook o di altri mezzi mediatici utilizzati compreso ogni mezzo social nel quale siano state pubblicate le notizie erroneamente riportate.
Con riserva di tutelare i diritti ed interessi lesi del Sig. Paolo Fresu nelle sedi giudiziarie competenti.

16/01/2015

Aggiornamento del 16 Gennaio sulla vicenda Libero-Bechis

In seguito alla nostra diffida indirizzata a "Libero Quotidiano" e al il suo Vice-Direttore Franco Bechis ieri in tarda serata sono stati rimossi dal web tutti i post indicati nella stessa.
Un grazie anche a "L’Unione Sarda" che oggi ha rimosso la riproduzione degli articoli di cui sopra.

Resta in sospeso la seconda richiesta che abbiamo formulato: un formale atto di scuse con gli stessi mezzi utilizzati per la pubblicazione dell’articolo e del video.
Ma ovviamente esistono anche i conti:

il DPCM del 15 maggio 2014 nell’art. 2 (programma di iniziative culturali) affida al musicista Paolo Fresu un progetto chiamato “Lo squillo della Grande Guerra.Il Silenzio” (da un'idea dello scrittore giornalista Paolo Rumiz) assieme a numerosi altri progetti artistici e non solo (mostre, progetti didattici e di archiviazione e digitalizzazione), che coinvolgono figure di grande caratura artistica come quelle di Ermanno Olmi, Riccardo Muti e l’Orchestra di Piazza Vittorio per contribuire alla realizzazione di un programma commemorativo sulla Grande Guerra.
Il progetto di Paolo Fresu è quello tra tutti che percepisce la cifra minore, indicata in un massimo di € 50.000,00.
Il 20 maggio 2014 il Segretariato generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri determina l’affidamento definitivo del progetto per un importo complessivo non superiore a € 40.000,00 al netto dell’Iva e delle ritenute fiscali e previdenziali.
Il 28 Luglio 2014 l’agenzia di Paolo Fresu emette la fattura n. 89 di € 30.000,00 più Iva al 22% (€ 6.600,00) per un totale di € 36.600,00.

Cifra che comprende:

1.L’ideazione e la direzione artistica del progetto suddiviso in tre parti: 

a) individuazione e coinvolgimento di trombettisti della maggiore parte dei Paesi belligeranti (Italia, Portogallo, Romania, Stati Uniti, Grecia, Polonia, Brasile, Russia, Australia, Regno Unito, Montenegro, Albania, Bulgaria, Ungheria e Serbia) per l’esecuzione con tromba sola o con soli ottoni del “Silenzio” nella giornata del 27 luglio. Tutte queste esecuzioni faranno poi parte di un video che viene successivamente pubblicato su Rai Storia;

b) Ricerca di materiali musicali di repertorio sulle due guerre per l’esecuzione di un concerto originale;

c) Arrangiamento degli stessi per un duo di tromba e bandoneon.

2.Concerto della durata di oltre 90 minuti con introduzione del “Silenzio” per tromba sola sull’altipiano di Folgaria alla presenza di diverse migliaia di persone (https://www.youtube.com/watch?v=AO7GpbSnrcI).

3.Cachet degli artisti.

4.Compensi per le altre professionalità del management coinvolte (tecnico del suono, direttore di produzione, agenzia).replique montre

5.Spese di viaggio, vitto e alloggio per le professionalità e gli artisti per due giorni (il concerto si svolgeva in quota e si è dovuti arrivare il giorno prima, destinando all’evento più giorni pieni durante il periodo della tournée estiva).
Il costo complessivo è inferiore a quello dell’affidamento da parte della Presidenza del Consiglio dei Ministri e comunque inferiore a qualsiasi concerto di una festa paesana...

Non credo che la musica abbia un prezzo ma ha tuttavia una trasparenza che la rende universale…

14/01/2015

Aggiornamento del 15 Gennaio sulla vicenda Libero-Bechis

Alcuni minuti fa il nostro avvocato ha inoltrato a direttore, vicedirettore, segreteria e indirizzo pec di "Libero" un "Atto di Significazione e Diffida" relativo all'articolo pubblicato in data 14.01.2015 dal Titolo "Renzi paga 20 mila euro al minuto la tromba di Fresu".
Eccone uno stralcio: 
"[...]lo stesso riporta affermazioni e locuzioni che cercano di sminuire e ridicolizzare la figura di Paolo Fresu, artista di fama internazionale e ampiamente riconosciuto quale Artista Italiano capace di portare la nostra Cultura nel Mondo, e le affermazioni di Franco Bechis sono altamente lesive, della persona, dell’immagine e della professionalità di Paolo Fresu.
Si chiede pertanto:
1. La immediata rimozione del video della rappresentazione di Paolo Fresu illegittimamente pubblicato sul sito web del giornale Libero, sul profilo facebook di Libero e sul profilo facebook di Franco Bechis e su altri eventuali siti e/o profili Facebook o altri mezzi mediatici utilizzati, compresi profili Twitter;
2.La immediata rimozione dell’articolo in oggetto e relativa smentita di quanto erroneamente riportato nel medesimo sul sito web del giornale Libero, sul profilo facebook di Libero e sul profilo facebook di Franco Bechis e su altri eventuali siti e/o profili Facebook o altri mezzi mediatici utilizzati, compresi profili Twitter; 
3. Formale atto di scuse pubbliche al mio assistito per quanto erroneamente indicato stante il fatto che i concerti dell’Artista Paolo Fresu sono di pregiata professionalità e competenza, e non sono concerti improvvisati come si vorrebbe far risultare dall’articolo a firma di Franco Bechis, il concerto oggetto dell’articolo come precisato non è stato di soli 2 minuti, è il risultato di un lavoro enorme e complesso durato 6 mesi, il concerto ha avuto una durata minima di 90 minuti ed è stato uno strumento di ricerca e memoria storica utilizzato da Rai Storia e che rimarrà negli archivi a ricordo di un evento della memoria storica del nostro Paese.
Il Formale atto di scuse deve essere pubblicato con gli stessi mezzi utilizzati per la pubblicazione dell’articolo e del video pertanto deve essere pubblicato sul giornale di Libero, sul sito web del medesimo, sul profilo Facebook di Libero e sul profilo Facebook di Franco Bechis e su ogni eventuale altro sito e/o profilo Facebook o di altri mezzi mediatici utilizzati, compresi profili Twitter.
Con riserva di tutelare i diritti ed interessi lesi del Sig. Paolo Fresu nelle sedi giudiziarie competenti." 

replica patek philippe

13/01/2015

La risposta di Paolo sulla vicenda Libero-Bechis

Leggo da Ankara con tristezza e costernazione ciò che ha scritto e postato il vice-direttore di Libero Franco Bechis riguardo al mio concerto del 27 luglio scorso sull’altipiano di Folgaria in occasione della Grande Guerra e sulla presunta affiliazione politica (?) con Matteo Renzi. 
Vedo inoltre un tristissimo video con il countdown della esecuzione del mio “Silenzio" dal quale si evincerebbe che ho guadagnato un tot al minuto.
Posto che, in quanto artista, ho la libertà di guadagnare ciò che mi pare purché paghi le tasse, è ovvio che le sue affermazioni non corrispondano al vero ma siano terribilmente false e soprattutto tendenziose.
Sarà direttamente la segreteria della Presidenza del Consiglio a rispondere sulla cifra e sul come è stata destinata. 
Da parte mia posso dire che si trattava di un concerto originale di 90 minuti nike outlet, commissionato per l’importante occasione, con musiche tratte dal repertorio della Grande Guerra al quale ho lavorato sei mesi e che ha coinvolto, in una operazione complessa e unica nel suo genere, decine di persone e decine di Paesi in tutto il mondo con altrettanti musicisti che hanno eseguito la loro versione del “Silenzio" e grazie alle quali interpretazioni è stato concepito un lungo video trasmesso da Rai Storia che rimarrà negli archivi del nostro Paese assieme agli altri innumerevoli contributi di quell’importante commemorazione.
Ma il problema non è questo. 
E’ la cattiveria di un giornalista che si scaglia contro un noto (credo ci siano gli estremi per una querela…) che il 9 gennaio, da Parigi, ha dichiarato alla Nuova Sardegna di avere provato vergogna per la prima pagina di Libero che titolava con disarmante follia e irresponsabilità “Strage in un giornale a Parigi: Questo è l’Islam”.
Quel giorno, dalla Francia, mi sono vergognato di essere italiano mentre migliaia e migliaia di persone sfilavano sotto le mie finestre a due passi da Place de la République per gridare a favore della libertà di espressione e contro la violenza e il terrore.
 Anche noi siamo scesi in piazza domenica con i nostri cartelli insieme ai Capi di Stato e a due milioni di uomini, donne e bambini. 
Cartelli in italiano e in sardo – i nostri - come quelli di tutti i Paesi del mondo, di tutte le etnie montre copie e di tutte le fedi religiose compresa quella dei musulmani.
La mia risposta, come recita il cartello che ha concepito mio figlio di sette anni, è “Io sono Charlie e sarò sempre Charlie”.
Non ci sarà nessuno che potrà chiudermi la bocca sui principi che appartengono a tutti noi e che sono quelli della libertà, del rispetto, della religione e dell'ambiente.
In quanto cittadino responsabile e in quanto artista, ho il diritto e il dovere di esprimere la mia opinione ma nessuno invece ha il diritto di attaccare il prossimo con armi vere o subdole. 
Questa è violenza quasi assoggettabile a quella dei fatti parigini, e un pessimo esempio di civiltà e di democrazia.
Pertanto una riflessione (a) e due risposte (1 e 2):
a. Libero si, ma di pensare e di vivere senza le armi e con la speranza di un futuro migliore che non sia atteso o sperato, ma conquistato giorno per giorno.
1. Ma...Bechis!?!?!?!
2. JE SUIS CHARLIE ET JE SERAI TOUJOURS CHARLIE!
Paolo Fresu

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20/12/2014

Buone feste!

Dear friends,

a warm wish to all of you for a Merry Christmas and a New Year full of life and music.
Paolo and all the staff (Luca, Fabrizio, T ṹǜ k Music - for the festive occasion with two reindeer on the "ǔ" - and Pannonica Music).
The music that will accompany you on the site until the Befana is the traditional Scandinavian song "Till Bethlehem"

recorded live in Sassari with the Italian Quintet and with Daniele di Bonaventura in December 2012.

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30/07/2014

Time In Jazz 2014 - Piedi

E’ pur vero che, una volta in piedi, l’uomo non sa star fermo.
Frédéric Gros “Andare a piedi – Filosofia del camminare”
Carnets Nord, 2009 / Garzanti – 2013

Avere i piedi per terra…
Non c’è detto più attuale, soprattutto in questo momento di profonda crisi.  
Significa essere capaci di guardare la realtà con concretezza, senza grilli per la testa e contando solo sulle proprie certezze.
Noi uomini di campagna abbiamo ricevuto questo insegnamento dai nostri padri ma è stato in tutta l’Italia post bellica che è stato condiviso da tutte le categorie sociali, sia nel nord che nel sud del Paese. “Avere i piedi per terra” significava fare un passo per volta tastando la consistenza del terreno. Per poterne fare un altro senza assistere allo sgretolarsi di ciò che si stava costruendo e arrivando così, giorno dopo giorno e passo dopo passo, nei luoghi lontani che rappresentavano la rinascita.
 E’ illuminante in proposito il testo “Walden” di David Henry Thoreau, incentrato proprio sul rapporto tra piede, terreno, appiglio e libertà.
Ciò potrebbe essere in con il concetto del sogno e della speranza ma, a pensarci bene, le due filosofie combaciano, giacché l’essere a contatto con la terra significa non solo poter dare vita ai propri sogni ma soprattutto concretezza alle proprie aspettative. Muovendosi step by step con quell’attenzione che è di chi ha vissuto e del mondo conosce aspirazioni e inganni.
Certo, il volo dell’arte e della creazione sa di poesia e di sentimento ma non c’è forse un lirismo estremo nel gesto del seminatore, di colui che taglia e raccoglie nei campi o in una lunga passeggiata?
Molti grandi scrittori, filosofi e pensatori sono stati dei grandi camminatori. Da Nietzsche a Rimbaud passando per Rousseau, Kant e Gandhi questi hanno affermato la necessità dell’intendere il piede come strumento di scoperta di se stessi e degli altri. Il viaggio a piedi dunque come forza scatenante nel rapporto tra uomo e natura e dunque elemento suggeritore di creatività.
Un antico proverbio cinese citato dal grande Ermanno Olmi nella sua autobiografia recita: “Se hai due soldi, uno spendilo per il pane e con l’altro compera giacinti per il tuo spirito”. Trovo che in questo si esplichi il concetto di concretezza e di volatilità dell’uomo, racchiuso nelle necessità di mettere in relazione simbiotica corpo e anima, terra e cielo.
Come per il pellegrino alla ricerca della fede che non è solo metafora della condizione umana ma bensì, come scrive Frédéric Gros, una "condizione giuridica". Condizione dettata ufficialmente da una messa solennissima in cui il vescovo benediceva gli attributi tradizionali del camminatore: il bordone (lungo bastone con l’estremità metallica) e la bisaccia per contenere il pane. Bisaccia sempre aperta in quanto il pellegrino era sempre pronto a donare e a condividere.
E allora il “piede”, tema del nostro festival, diventa non solo la traccia del nostro passaggio ma la molla che dà la spinta necessaria per spiccare il salto verso l’ignoto. Per librarci nell’aria o per immergerci nel mare della conoscenza.
La danza è dunque il viaggio dentro se stessi e il linguaggio fisico che aspira alla trance intesa come comunicazione e ricerca.
L’isola di Sardegna si porta appresso tutto ciò. Non a caso i greci la chiamavano Sandalyon per via della sua forma geografica vagamente simile a un sandalo. (Ichnusa)
Sandalo che è traccia di camminamenti storici e migrazioni ataviche in seno al Mediterraneo che anticipano quelle moderne che si portano appresso, nei barconi della speranza, morte e desolazione.
E se il piede è la mappa del nostro corpo (nella Tomba dei Medici a Saqqara, in Egitto, è dipinta una scena di un massaggio ai piedi e alle mani datata 2330 a. C. e il medico greco Ippocrate insegnò ai suoi discepoli il massaggio ai piedi come intervento terapico) non è azzardato affermare che la Sardegna non solo rappresenta l’antica credenza dei greci ma è il corpus del mondo più vasto laddove i luoghi sono gli organi e i suoni gli arti e i sensori. Terminazioni nervose da cui tutto parte e tutto ritorna. Capaci di muovere i fili della cultura umana come è stato allora in quanto isola posta in seno alla culla della civiltà.
Se poco si sa di quella nuragica è plausibile che i nuraghi (alcuni hanno la loro pianta a forma di piede) sorgessero per mettere in relazione terra e cielo come era per la "scala della luna" nel pozzo sacro di Santa Cristina, un osservatorio in cui luna e sole si specchiavano e si riflettevano in occasione di equinozi e solstizi che, ciclicamente, si ripetono tuttora.
Sono le pietre, in Sardegna, a suggerire la danza. E questa, a sua volta, necessita del suono che è linfa e collante della società. Sono i suoni delle launeddas e del Tenore, profondamente legati ai riti propiziatori e di ringraziamento che hanno a che fare con la terra e con i cicli stagionali.
Riti dove il corpo diventa esso stesso strumento e dove i piedi che si muovono all’unisono sono la rappresentazione identitaria dell’uomo.
E’ in questo senso e con queste riflessioni che proveremo a leggere questa ventisettesima edizione del festival internazionale Time in Jazz dedicata a un tema così stravagante.
Calpesteremo ancora la terra… ma questo lo facciamo da molti anni. Piuttosto offriremo tale tema come nuovo e altro strumento creativo in grado di raccontare, attraverso i plurilinguaggi dell’arte, le nostre aspirazioni odierne.
In un contesto che prova a mettere in relazione territori, tradizioni, idiomi d’arte e genti, lo sviluppo di un tema così ancestrale è intrigante.
Gli esempi della storia saranno il tessuto connettivo di questa edizione che si lascia alle spalle i temi degli elementi e che vuole riallacciarsi agli stessi, soprattutto al "Quinto Elemento" che lo scorso anno suggeriva l’idea del vuoto e del nulla.
Già il Vangelo di San Giovanni narra di un Cristo che si prostra per lavare i piedi agli Apostoli mentre in Cina, nelle dinastie Ming e Qing, le donne venivano sottoposte alla tortura dei piedi forzatamente fasciati per ambire al raggiungimento di uno status sociale (è solo del 1902 il decreto che abolisce tale pratica ma ci vorranno cinquant'anni affinché sparisca totalmente…)
E se il "diario scarpa" scritto da Gertrude Ly nel 1951 sopravvive al regime della dittatura maoista per merito di un frate missionario che lo porta fuori dalla Cina cucito tra le suole delle sue scarpe, è in India che si toccano i piedi del proprio maestro o dei propri genitori in segno di devozione e di rispetto.
Dunque il piede protagonista assoluto nel complesso rapporto tra uomini e civiltà e "pes" (come in latino e in sardo logudorese) come unità ritmica della metrica classica basata sulla quantità sillabica e che invece, nel Novecento, afferma la sua funzione libertaria contrapposta all’isosillabismo, tutta protesa nell’urgenza del verso libero: di quella libertà che è, da sempre e per antonomasia, l’aspirazione del jazz.
In questo 2014 mettiamo in relazione il nostro bisogno di scavare negli idiomi contemporanei con la necessità di trovare un nesso con la storia di un festival che, da sempre, si interroga sul proprio tempo.
Per dirla alla Erri De Luca, l’elogiare i piedi non è altro che il bisogno di conoscere meglio il prossimo e il suo mondo. 
Partendo da ciò che ci tiene in relazione con la terra fino a quando non si sentirà la necessità di un nuovo volo verso l’ignoto. 
L’artista messicana Frida Kahlo, costretta a letto per via di una grave malattia e successivamente per un terribile incidente, scriveva “Pies para que los quiero si tengo alas para volar”. 
Perché volere i piedi se ho ali per volare?
Chissà che questo pensiero non suggerisca il tema del prossimo festival…

Paolo Fresu

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Est puru ‘eru chi, una ‘olta in pȇs, s’omine no podet ’istare frimmu.
Frédéric Gros “Andare a piedi – Filosofia del camminare”
Carnets Nord, 2009 / Garzanti – 2013 

Haere sos pȇs in terra…
No b’hat dicciu pius currettu, ispecialmente in unu momentu de crisi prufundha chei custu. Cheret narrere essere capatzos de abbaidare a sa realidade cun cuncretesa, chena griglios in conca e contendhe solu subr’a sas tzeltesas. Nois omines de campagna hamus ritzevidu cust’addochimentu dai sos mannos ma est in tota s’Italia post bellica chi est istadu cundivisu dae totas sas categorias sotziales, in su nord e in su sud de sa natzione. 
“Haere sos pȇs in terra” cheriat narrere faghere unu passu a sa ‘olta proendhe s’agguantu ‘e su terrinu. Pro ‘ndhe poder faghere un’atteru chena assistire a su tzedire de su chi si fit pesendhe e arrivendhe in custu modu, de die in die e de passu in passu, in sos logos attesu chi rappresentaiant sa rinaschida. 
A custu propositu est jaru su testu “Walden” de David Henry Thoreau, intzentradu propriu subra su rappoltu tra pȇ, terrinu, aggantzu e libeltade. Diat poder’essere in cunflittu cun su cuntzettu de sonniu e de isperantzia ma, pensendhebei ‘ene, sas duas filosofias s’assimidzant, ca su essere in cuntattu cun sa terra no est solu dare vida a sos sonnios ma cuncretesa a sas isperas. Movendhenos step by step cun cussa intentzione chi est de chie hat vividu e de su mundhu ndhe connoschet aspirasciones e ingannias. 
Tzeltu, su ‘olu de s’alte e de sa creascione hat sentore de poesia e de sentimentu ma no b’hat forsi unu lirismu immensu in s’attu de su semenadore, de su chi debbiat et messat in su campu o in una passidzada? Medas de sos iscrittores, filosofos e pensadores mannos sun istados de bona andhanta.
Dae Nietzsche a Rimbaud passendhe pro Rousseau, Kant e Gandhi issos hant affilmadu s’esigenscia de intendhere su pȇ comente istrumentu ‘e iscobelta de issos matessi e de sos atteros. Su viaggiu a pȇ duncas comente foltza iscadenante in su rappoltu tra omine e nadura, duncas elementu sudzeridore de creatividade. 
Un’antigu proverbiu cinesu tzittadu dae Ermanno Olmi in s’autobiografia narat: “Si has duos soddhos, unu ispendhelu pro su pane ei cun s’atteru compora giatzintos pro s’ispiritu”.
Mi paret chi in custu dicciu si cuet bene su cuntzettu de cuncretesa e de ‘olatilidade de s’omine: sa netzessidade de ponner’in relascione simbiotica colpus e anima, terra e chelu.
Chei su pellegrinu in chilca de fide chi no est solu sa metafora de sa condiscione umana ma, comente iscriet Frédéric Gros, una "conditzione giuridiga". Dittada ufficialmente cun una missa manna ‘ue su piscamu daiat sa beneiscione a sos elementos tradiscionales de sos andhantanos: su bordone (unu bacculu longu cun una estremidade metallica) ei sa beltula pro su pane. Beltula abelta ca su pellegrinu fit sempre prontu a dare e a cundividere.
E tandho su “pȇ”, tema de custu festival, non est solu s’imprenta de su passazdu nostru ma sa molla chi nos dat s’ispinta netzessaria pro leare su ‘olu ‘e s’inconnottu. Pro non pesare in s’aera o pro nos imbelghere in su mare de sa connoschenscia.
Su ballu est tandho su viaggiu intro ‘e nois ei su limbadzu fisicu chi aspirat a sa trance cuntzepida comente comunicascione e chilca.
S’isula de Sardigna si jughet fattu tottu custu. No est una casualidade chi sos grecos la jamaiant Sandalyon pro sa fromma geografica chi pariat un’andhalia. 
Andhalia chi est sa tratta de andheras istoricas e migrasciones antigas in su Mediterraneu chi antitzipant cussas de ‘oe chi si jughent fattu, in sos barcones de isperantzia, morte e afflitesa. 
E si su pȇ est sa mappa de su colpus (in sa tumba de sos Medici a Saqqara, in Egittu, b’hat pintada una iscena de una cariadura a sos pȇs e a sas manos datada 2330 a. C. ei su duttore grecu Ippocrate insindzeit a sos discepulos suos sa cariadura a sos pȇs comente intelventu terapicu) no est adzaldadu affilmare chi sa Sardigna no rappresentat solu s’antigoria credenscia de sos grecos ma est su corpus de su mundu pius mannu ‘ue sos logos sunt sos olganos ei sos sonos melmos e sensores. 
Telminasciones nelvosas dai ‘ue totu incomindazt e totu torrat.
Capatzas de movere sos cosindzos de sa cultura umana coment’est istadu tandho in cantu isula posta in mesu a su jogulu de sa tzivilidade. Si pagu s’ischit de cussa nuragica est plausibile chi sos nuraghes (tzertos hant sa pianta a fromma de pȇs) sian‘istados pesados pro ponner’in relascione sa terra cun su chelu comente fit pro sa “iscala de sa luna” in su puttu sacru de Santa Cristina, unu osselvatoriu ‘ue sa luna ei su sole s’ispijaiant e si reflettiant in s’occasione de s’equinotziu e de su solstitziu chi, ciclicamente, si repitint ancora ‘oe. Sunt sas pedras, in Sardigna, a sudzerire su ballu. Et custu, a bolta sua, netzessitat de su sonu chi est linfa e collante de sa sotziedade. Sunt sos sonos de sas launeddas e de su Tenore, prufundhamente ligados a sos ritos propitziatorios e de ringratziamentu chi hant a ‘itte faghere cun sa terra e cun sos ciclos de sas istajones. Ritos ‘ue su colpus divenit isse matessi istrumentu et ‘ue sos pȇs chi si movent umpare  sunu sa rappresentascione identitaria de s’omine. Est cun custu sensu e cun custa reflessione chi proamus a leggere custa editzione numeru vintisette de su festival internazionale Time in Jazz dedicada a unu tema istravagante chei custu. 
Appeigamus ancora sa terra…. ma custu lu faghimus dae medas annos.
Piusapprestu chilcamus de offerrere su tema comente istrumentu nou e creativu in gradu de contare, utilidzendhe sos limbadzos de s’alte, sas aspirasciones de ‘oe. In unu cuntestu chi proat a ponnere in relascione logos, tradisciones, limbadzos de alte e dzentes, s’ilviluppu de unu tema antigoriu chei custu est intrigante. 
Sos esempios de ‘istoria han’a essere sos tessidos cunnettivos de custa editzione chi si lassat a palas sos temas de sos elementos e chi si cheret ligare a sos matessi, ispecialmente a cussu de su “Quinto Elemento” chi s’annu passadu at sudzeridu s’idea de su boidu e de su nuddha. Già s’Evangeliu de Santu Juanne narat de unu Cristu chi s’abbasciaiat pro isciuccare sos pȇs a sos Apostulos mentres in Cina, in tempos de dinastias Ming e Qing, a sas feminas beniant torturados sos pȇs cun fasciaduras foltzadas pro pesare s’istadu sotziale (est solu de su 1902 su decretu chi candzellat tale pratiga ma b’an’a cherrere chimbant’annos pro la faghere iscumparire…). 
E si su “diariu iscalpa” iscrittu dae Geltrude Ly in su 1951 resistit a su regime de sa dittadura maoista gratzias a unu frade missionariu chi resessit a lu jughere a fora de sa Cina cosidu in sa cambriana de sas iscalpas, est in India chi si toccant sos pȇs de su mastru o de sos padres in signu de devotzione e respettu. 
Duncas su pȇ protagonista in su cumplessu rappoltu tra omines e tziviltade e “pes” (coment’est in latinu e in sardu logudoresu) comente unidade ritmica de sa metrica classica basada subra sa cantidade sillabica e chi, in su Noighentos, affilmat sa funtzione sua chi est libeltaria e contrapposta a s’isosillabismu, totta in sa direscione de su versu liberu: de cussa libeltade chi est, dai sempre e pro antonomasia,

s’aspirascione de sa musica jazz. In custu 2014 ponimus in relascione su bisondzu de iscavare in sos idiomas contemporaneos cun sa netzessidade de buscare unu aggantzu cun s’istoria de unu festival chi, dae sempre, si preguntat subra su propriu tempus. fausse montre
Pro la narrere comente a Erri De Luca, s’elogiare sos pȇs no est atteru chei su bisondzu de connoschere mendzus sos atteros ei su mundhu issoro. Paltendhe dae su chi nos muntenet in relascione cun sa terra fenament’a candho no si sentit sa netzessidade de unu ‘olu nou in s’inconnotu.
S’altista messicana Frida Kahlo, custrinta a lettu dae una grave maladia e poi pro unu terribile incidente, iscriiat ““Pies para que los quiero si tengo alas para volar”. 
Proite cherrere sos pȇs si jutto alas pro ‘olare? 
Chissà si custu pensamentu no had’a podere sudzerire su tema de su festival de un’atter’annu… 

Paulu Fresu

02/02/2014

Il Paolo Fresu Quintet festeggia 30 anni di attività.

Ecco il video di presentazione del nuovo disco del quintetto di Paolo Fresu.
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